Una vacanza vissuta senza trucco e senza tacchi. Oggettivamente, la mia prima volta.
Ma del resto, in un luogo in cui ci si fa belle con vestiti colorati e fiori tra i capelli, qualsiasi artificio suonerebbe terribilmente stonato.
Il tentativo fallito di preservare la stiratura dei capi in valigia (dopo anni mi sono convinta di provare il metodo degli abiti arrotolati su se stessi, rivelatosi un drastico buco nell’acqua: non ho mai avuto addosso qualcosa che assomigliasse più a uno straccio da pavimenti, ve possino…) è risultato quasi profetico di quindici giorni all’insegna dell’abbandono di ogni imbellettamento, in cui paradossalmente mi sono sentita più bella.
Fin dai primi passi posati sull’isola, ho avuto l’impressione di varcare una soglia.
Basta davvero scendere da un volo di 17 ore per soffiare via la polvere dagli occhi (e un pò dal cuore)?
Quel gesto istintivo, stropicciare le palpebre e sorprenderti per ciò che è semplice.
Accorgerti di non desiderare nulla di più.
Ecco, forse questa è la cosa che in assoluto mi è riuscita peggio negli ultimi mesi.
Ironia della sorte, la primissima cosa che ho notato di Bali sono appunto i suoi usci, così eleganti e delicati da intimorirne il sorpasso. E in questa cosa ho trovato un senso metaforico sorprendente.
La cura che ciascuno ha del proprio ingresso, poco importa che sia domestico o di lavoro, compie un percorso che nasce da porte smaltate lucide e colorate, si snoda passando attraverso un’accurata attività di pulizia e culmina presto ogni mattina in un abbellimento che avviene tramite variopinte ciotole di foglie di palma, riempite di dolciumi, fiori e frutta fresca.
E nonostante questo gesto nasca dal desiderio di compiere offerta verso le divinità, ho compreso che per i balinesi non è soltanto un gesto di lusinga verso la loro trinità, nè tanto meno un semplice biglietto da visita nei confronti della collettività.
Anche qui, passo indietro verso un motivo infinitamente più semplice.
Compiere un gesto grazioso rende il bilancio della tua giornata immediatamente migliore.
Da quei cestini ho inconsapevolmente appreso anche un’altra lezione.
Incuriosita dalla nonchalance con cui vengono lasciati alla mercè del passaggio di chiunque, dal turista distratto (non voglio pensare semplicemente irrispettoso) al cane in cerca del pranzo, ho chiesto se non fosse motivo di turbamento la quasi matematica distruzione di offerte preparate con tanta diligenza e sentimento.
Mi è stato risposto in modo talmente sereno e ovvio che mi sono sentita davvero stupida per la domanda.
L’importante è l’intenzione, se è sincera.
L’offerta materiale è solo un simulacro.
Quanto mi aggrappo io agli oggetti per me preziosi, capaci di farmi ridere e piangere solo guardandoli?
Per non parlare di quanto a spada tratta penso sempre di dover proteggere i miei reali buoni propositi!
Anche le cose in cui hai messo tanto cuore a volte vanno lasciate andare.
L’intenzione vale più del gesto, nessuno può rovinarla o rubarla.
Non deve diventare sofferenza. Non è un dramma. Ama e lascia andare.
Un’altra cosa che evidentemente avevo bisogno di volare dall’altra parte del mondo per (ri)scoprire e apprezzare, in quel modo che ne rende poi soffocante la mancanza, è il senso della collettività.
Una mattina, molto presto, siamo rimasti incantati ad osservare una scolaresca in uniforme, deliziosamente assonnata, che camminava in fila indiana sul ciglio della strada. Ogni bimbo stringeva tra le piccole dita una minuscola scopa di saggina, assemblata alla bell’e meglio.
Il giorno dopo abbiamo ammirato la stessa allegra carovana, questa volta armata di piccoli secchielli.
Ancora vittima della mia notoria curiosità, ho domandato spiegazioni.
A Bali lo stato non si occupa della scuola, lo fanno gli alunni. Un giorno puliscono i propri banchi, l’altro innaffiano le piante del cortile, provate dal gran caldo della stagione secca.
Ognuno fa la propria parte, perchè solo così tutto può essere fatto bene. E lo si impara da subito, prima che prevalgano gli egoismi.
Da ultimo, mi porto a casa una parola.
Parlando di una località in cui sarei assolutamente voluta andare, la guida mi ha chiesto se sapessi cosa significava quel nome, nella antica lingua sanscrita. La risposta era un compendio di novità, straordinarietà e bellezza: meraviglioso.
Meraviglia è la mia parola preferita, da quando ho 5 anni.
Qualcosa di troppo stupefacente per essere descritto, qualcosa in cui quasi fai fatica a credere.
Quel guizzo che, se custodito nel proprio sguardo, consente di percepire il bello di tutte le cose.
Di vivere il quotidiano in un modo sempre nuovo.
Di guardare chi ami stupendoti ancora dei suoi dettagli anatomici come della sua bellezza interiore.
Quella parola me la voglio imprimere, inchiostro sulla pelle.
Quella parola è tutto ciò che voglio nella vita, per me.