E’ solo quando cadiamo vittime di un raffreddore con la R maiuscola, di quelli che ci murano le narici stile grotta di Ali Babà (e non c’è “apriti Seasamo” che tenga), decretando giornate con i nervi a fior di pelle e notti insonni che mettiamo a fuoco quanto un’attività scontata e innata come respirare faccia scorrere lisce le nostre giornate.
Scado nella banalità, lo so, ma pensare a con quanta naturalezza falliamo nell’apprezzare la presenza ridestandoci solo davanti alla mancanza mi avvilisce.
L’assenza vale la sua pena solo in veste di attesa, quando precede il ricongiungersi a qualcuno. Diventa dolce, nel ricordare una mancanza che è valore.
Ma allo stesso modo volta il lato della sua stessa medaglia se è conseguenza dello smarrimento. Della consapevolezza di una privazione. Del realizzare con orrore di aver perso qualcosa.
Il collo tenuto al caldo dai capelli prima di un taglio netto, gli abbracci che ricompongono, il calore di un piatto in tavola a cena quando ancora vivevi con mamma e papà, quel sentirti incompleto che era sintomo di sete di esperienza ai tempi dell’università.
Diamo per scontati gesti e sorrisi, smettiamo di dar peso alla dolcezza di un nomignolo, trascuriamo quelle che un tempo per noi sono state vere e proprie conquiste.
Riconoscere la grandezza di ciò che abbiamo è difficilissimo, soprattutto nelle sue manifestazioni più ordinarie, quelle ormai inglobate nella nostra quotidianità tanto da non venire più a galla, affogando in tutto il resto.
Troppo semplice invece dimenticare che – prima di diventare routine – quelle stesse piccole cose ci hanno fatto sfondare il cielo con un dito, ci hanno fatto battere il cuore così forte da toglierci quasi il respiro. Che peccato mortale, trascurare la felicità.
Viviamo tante delle cose più preziose della vita come optional di serie. Di quelli compresi nel pacchetto, che una volta acquisiti non possono esserci tolti.
Teniamo il guinzaglio lento, tutti assorti nel nostro incedere tra le giornate, perdendo per strada tante sfumature di bellezza.
Come dei distratti Pollicino sparpagliamo sul sentiero ciò che è capace di accarezzarci il cuore, imbellettare la nostra vita in modo semplice e renderci – con sorprendente disinvoltura – molto felici. Gli facciamo mangiare la polvere che solleviamo con il nostro passo goffo e concitato, rischiamo addirittura di calpestarlo.
Chissà se saremo poi capaci di riconoscerle, nascoste tra la polvere sulla strada del ritorno, quelle briciole. Se riusciremo a lasciare che ci indichino la via di casa. E se loro, lì in disparte, ci aspetteranno.
Ingredienti:
350 gr di frutta essiccata (per me fichi, albicocche e datteri)
150 gr cioccolato fondente
100 gr frutta candita (per me ciliegie, pere e fico)
100 gr frutta secca (per me pistacchi e nocciole)
100 gr farina
80 gr zucchero semolato
3 uova
un cucchiaino di lievito per dolci
un cucchiaino di cannella
mezzo cucchiaino di noce moscata
Tagliare in piccoli pezzi la frutta essiccata e quella candita, lasciare invece interi nocciole e pistacchi.
Tritare il cioccolato metà in scaglie e metà in pezzi grossolani.
Montare le uova con lo zucchero, poi aggiungere la farina setacciata, il lievito e le spezie e mescolare bene.
Unire al composto prima tutta la frutta e poi il cioccolato, mescolando bene con una spatola: l’impasto sarà molto ricco, è la frutta secca a dare il corpo al dolce.
Trasferire in uno stampo da plumcake imburrato e infarinato.
Cuocere in forno statico a 170° per circa 80 minuti.
Sfornare, lasciar raffreddare e sformare il cake.