Cannella e Confetti

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Archives for Aprile 2015

Riso basmati con fave, speck e ricotta salata

by 22 Comments

Arranco verso l’ufficio, come sempre sul filo dell’orario, che la mattina è una lotta contro il tempo.
Generalmente, durante la corsa stile ultimo minuto, sul mio marciapiede si piazza l’indeciso, il gruppo di turisti in brainstorming con giga-cartina, la coppia dita incollate e passo due all’ora. E io in cuor mio sbuffo perché, chiaro, si tratta di secondi fondamentali (demone del milanese imbruttito esci da questo corpo).
Stamattina no. Il mio “ostacolo” mi strappa un sorriso.
Sono io a rallentare, per godermi lo spettacolo qualche istante di più. Come quando al cinema resto incollata alla poltrona durante i titoli di coda, perché la magia in cui mi ha traghettata il grande schermo non sono ancora pronta a lasciarla andare.
E non sono solo quei deliziosi stivaletti di gomma e quell’ombrellino, che tanto somiglia a quello rosa con le caramelle che usavo da piccola, a ipnotizzarmi.
Sono catapultata indietro nel tempo, con dolce violenza.
Frastornata di emozione fisso quella prima manina stretta nella presa delicata delle dita della mamma. L’altra, salda in quella forte del papà.
La frugolina saltella con la spensieratezza di chi ha visto solo il nuovo della vita e tanto ancora ha da scoprire.
Di chi le lacrime le ha versate solo per le sbucciature alle ginocchia. Di chi di più ha dovuto desiderare soltanto la terza caramella gommosa (no mamma, non mi fa venire il mal di pancia).
Stringo i pugni anch’io. Le risento lì, queste mani con le unghie smaltate di viola, dov’erano 25 anni prima.
Quante volte me le hanno strette i miei.
Per rendere più saldi i primi passi, come un uccellino traballante che spicca il volo dal nido. E allo stesso tempo per insegnarmi come si faceva a cadere senza farsi troppo male (di tutte, forse la lezione più importante, perchè nessuno è infallibile).
Per camminare più veloce, quando il passo era ancora troppo incerto e da sola non ce la facevo. Avevo disperatamente bisogno di quella marcia in più, quell’optional super esclusivo chiamato fiducia.
Per spiccare il balzo dondolando, felice, sentendomi al sicuro. Come facevo da bambina, appesa a quelle braccia come a due liane. Mi sentivo invincibile, saltavo con tanta facilità.
Nella camera d’ospedale in cui sono nata, le dita di papà mi hanno afferrata per i piedi, mentre con l’altra mano si attaccava al campanello (signora stia tranquilla, stanotte non nasce).
Nel corridoio dell’Università, mia mamma me le stringeva aspettando il mio turno per la tesi di laurea.
Per combattere la paura che, più di tutto, era quella di deludere la famiglia al completo che era venuta fino a lì per me. E lei lo sapeva, anche se non gliel’avevo detto.
In macchina, fermi a un interminabile semaforo davanti alla chiesa, era così salda e sicura la stretta di mio papà, il giorno del mio matrimonio. Niente panico, ci sono e ci sarò.
Sulla barella in corridoio, l’anno scorso, nel breve tragitto per l’ascensore che mi avrebbe portata in sala operatoria. Tutta la rassicurazione del mondo stava in quell’ultima, delicata, carezza di mia mamma.
Che non importa quanti anni hai, c’è un supporto a cui è impossibile rinunciare. Geneticamente ne hai bisogno. Lo senti nelle vene: sarai sorretta, sempre.
Le loro mani in ogni circostanza hanno saputo farti trovare il coraggio necessario. Quello che alla fine è dentro di te, dove lo cercavi. E quei due lo sanno, perchè ce lo hanno messo loro.

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NB. Ho preparato questo riso per Fabio, una sera che non sarei tornata a cena: dato che già gli limito la tanto adorata pasta a favore di cereali più sani e leggeri, ho concesso un condimento dal gusto più deciso 😉

Ingredienti (per due persone)
125 gr di riso basmati
una fetta spessa di speck (80-100 gr)
una manciata di favette piccole
pepe multibacca
olio EVO

Bollire il riso basmati secondo le indicazioni di cottura specifiche in acqua salata; far raffreddare sotto l’acqua corrente e condire con un filo d’olio, per evitare che i chicchi si attacchino.
Tagliare lo speck a striscioline, far scaldare un padellino antiaderente e cuocerle un paio di minuti, perchè diventi croccante quanto basta. Far raffreddare, poi unirlo al riso e alle favette (devono essere quelle piccole piccole, adatte al consumo da crude senza essere sbucciate).
Aggiungere pepe a piacere, ricotta salata grattuggiata e un goccio d’olio.
Servire a temperatura ambiente o freddo.

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Filed Under: piatti unici, primi, ricette

Turbanti di sogliola ripieni di porri e mandorle

by 38 Comments

La frenesia da collezione: una specie di eccitamento sensoriale, la venerazione simil religiosa di classi di oggetti – generalmente inutili o in disuso – che ci spinge ad accumularne senza freno per stiparli a casaccio o disposti ordinatamente su mensole e scaffali.
Diciamolo, prima o poi ci siamo caduti tutti. E non parlo di baci rubati, amori sbagliati, delusioni, due di picche e gaffes, che sfido a trovare qualcuno che non ne abbia pieni i cassetti della memoria.
Alle elementari, se non collezionavi qualcosa eri uno sfigato.
Almeno le sorpresine dell’uovo Kinder, che infatti nel mio caso hanno aperto le danze: ma per essere preso in considerazione, minimo minimo, dovevi averne una trentina.

Ci ho provato eh, ad affezionarmi a qualcosa che avesse un pò più di spessore: il papà della mia tata, con la passione per la numismatica, mi aveva regalato un meraviglioso raccoglitore per le monete.
Era rosso, di pelle e rappresentava una sorta di reliquia per me. Peccato che costanza non sia proprio il mio secondo nome; dopo un primo periodo di dedizione l’ho conservato così, da esposizione.
Sono regredita invece alle schede del telefono, che mi inducevano a setacciare ogni cm delle cabine telefoniche, in perfetto stile accattona (non so come i miei abbiano potuto non ripudiarmi).

Con l’adolesecenza sono poi arrivati i terribili ciucci di plastica, di ogni colore e dimensione, e gli storici profumini, con le loro deliziose micro confezioni, in proporzione dieci volte più care dei classici erogatori.
E ancora spille da paninaro e braccialetti di ogni sorta si accompagnavano ad enfatiche dediche sul diario, TVB impressi a pennarello indelebile sull’Eastpak, mille mila cd masterizzati.

La verità è che io sono per il minimal, detesto l’accumulo e a casa mia sono banditi soprammobili e suppellettili varie. Gli unici a non salvarsi sono i cassetti della mia cucina.
Tra le mie eccezioni più care ci sono le ricette: stampate da internet, qualche ritaglio di giornale, fotocopie delle adorate grafie di mia mamma e perfino di mia nonna.
E poi le migliori, collezioni che non occupano spazio se non nel cuore: ricordi felici e grandi sogni per il domani, sorrisi di bambini e carezze di anziani, gli occhi di mia mamma che mi fanno sentire forte e i Suoi sguardi che mi fanno sentire bella.

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Ingredienti:
sei filetti di sogliola puliti
due porri medi
40 gr mandorle a lamelle
olio EVO
sale affumicato
pepe multibacca

Tagliare finemente i porri, rosolarli in padella con olio EVO, poi abbassare la fiamma, aggiungere un goccio d’acqua e farli stufare. Salarli a fine cottura.
In un pentolino antiaderente molto caldo, senza grassi aggiunti, far tostare le mandorle a lamelle fino a farle colorire.
Salare e pepare i filetti, disporre al centro un pò di porri e qualche lamella di mandorla, poi richiudere l’involtino su di sè e fermarlo con uno stuzzicadenti.
Disporre in una teglia, guarnire la cima di ogni turbante con alcune lamelle aggiuntive e completare con un filo d’olio EVO.
Cuocere in forno a 200° per 20 minuti.

Filed Under: ricette, secondi Tagged With: pesce, ricette leggere, ricette veloci

Piccola catalana di gamberi con cetrioli e mango

by 33 Comments

Sono passati poco più di due anni da quando io e Lui abbiamo cambiato casa.
Ricordo bene gli scatoloni impacchettati poco alla volta, tra uno sbadiglio e un morso fugace alla cena, la sera dopo il lavoro. I tentativi di raggrupparne il contenuto con una certa coerenza, naufragati nel rendermi conto che uno scatolone esclusivamente riempito di libri e guide turistiche avrebbe spezzato la schiena del più pavido volontario. L’uniposca che elencava sul cartone lo sgangherato mix che lo popolava, anche se puntualmente la nota finiva sul lato sbagliato vanificando le mie buone intenzioni di praticità.
Quella nevicata di febbraio, il freddo che pungeva le guance e la fanghiglia che accompagnava ogni passo avanti e indietro per un cortile ancora parecchio “under construction“.
Il microonde arroccato in precario equilibrio su uno scatolone in cameretta, per scaldare la minestra del pranzo durante le due giornate di montaggio mobili: 48 ore passate con la scopa in mano e l’occhio vigile, a sventare danni (non vi spiego i brividi nel fermare il trapano a un dito dal muro, accorgendomi che i comodini stavano per essere fissati al contrario).
Una bella avventura, sicuramente. Però – mi ero detta – prima del prossimo trasloco devono passare minimo dieci anni. E invece eccomi qui, a impacchettare pensieri e speranze, ricette di famiglia ed esperimenti più o meno azzardati, foto sghembe, emozioni scritte in punta di tastiera per non far troppo rumore, che il mio cuore ha il subbuglio facile.
A salutare le pareti che mi hanno accolta quando non sapevo nulla, nemmeno quanto mi sarei fermata. Quante cose non riuscivo ancora a leggere del mondo e dentro me stessa, quanti cuori “vicini di casa” non potevo nemmeno immaginare di incontrare.
Mi trovo a lasciare qualcosa che è stato mio, decisamente lontano dalla perfezione ma di indescrivibile valore perchè costruito a piccoli passi del tutto da me. Che so bene che resterà eternamente speciale e saprà sempre provocarmi un brivido. Come mi accade tutt’oggi passando davanti alla casa in cui sono nata, a Pavia, fissando la finestra in cui mi aspetto di scorgere ancora quella tenda a palloncini che mi proteggeva nella mia cameretta.
A guardare con il cuore in gola e gli occhi che brillano una nuova casa, a immaginarla prendere forma, vestita giorno dopo giorno di nuove sensazioni,  fotogrammi di cucina e di amore, pezzetti di vita.
Io ve la apro subito questa porta, che nella pelle non ci so più stare.
Vi accolgo ancora non del tutto in ordine, come un’ospite in ciabatte, ma con la stanza che profuma di pulito, il mio dolce preferito in forno e un aperitivo leggero sul tavolo.
E la cosa che più mi fa sentire già a casa, è la certezza che voi mi accettate anche così.

Piccola catalana di gamberi con cetrioli e mango

Ingredienti:
400 gr gamberi
5 piccoli pomodori sardi
mezzo cetriolo
qualche spicchio di mango
olio EVO
sale rosa
pepe multibacca

Lessare i gamberi, puliti e sgusciati, per pochi minuti in acqua bollente.
Lavare i pomodori, privarli dei semi e tagliarli a piccoli cubetti lasciandoli scolare su un paio di fogli di carta assorbente.
Tagliare a cubetti anche il cetriolo, eliminando la striscia centrale di semi e il mango sbucciato.
Unire le verdure ai gamberi, condire con olio, sale e pepe. A piacere aggiungere un paio di foglie di menta per profumare.
Riporre in frigorifero almeno mezz’ora, perchè il tutto si insaporisca. Prima di servire, lasciar riposare 5-10 minuti a temperatura ambiente, poi versare in bicchieri o coppette di vetro, guarnendo eventualmente con uno spiedino realizzato con un gambero e i cubetti di verdura.

Filed Under: antipasti, ricette, secondi Tagged With: pesce, piatti estivi, ricette leggere, ricette veloci

Bundt cake limone e cocco

by 13 Comments

La pasta fa ingrassare.
…chiaro, mica i due etti di burro e salvia con cui è condita. 
Il pane a dieta mai.
…beh, se ti risparmi il mezzo litro d’olio della scarpetta.
Una gogna che si snoda tra riviste, siti web e programmi tv, di facile presa sugli ostaggi di maniglie dell’amore e fianchi sempre un pò troppo morbidi, specialmente all’avvicinarsi della tanto temuta prova costume.
Diete iperproteiche e chetogeniche, pasta all’80% di proteine, dottrina Dukan.
Vite scandite da yogurt magro, bresaola, uova solo albume e petti di pollo. Cucine popolate da pancake di crusca e pizze low carb.
Dagli al carboidrato. Un’inquisizione a cui non scampa nemmeno la frutta.

 

Sfatiamolo questo mito, suvvia: i carboidrati hanno una funzione essenziale per il nostro organismo. E i cibi gustosi non sempre fanno male.
Per provarlo sul campo, ho preparato un dolce buono in tutti i sensi: con pochissimi grassi, senza burro e che si affida alla farina di cocco per ridurre lo zucchero senza perdere in fragranza.
Ciliegina sulla torta, la base è Wellness di Cerealia: una farina di grano tenero di tipo 2 che è ricchissima di fibre e ha addirittura meno calorie della farina tradizionale.
Le fibre fanno bene alla salute, alla linea e anche alla pelle: aiutano a combattere colesterolo, glicemia, senso di fame, radicali liberi. Non sempre però, i prodotti che ne contengono sono gradevoli in consistenza e sapore; per questo, la farina Wellness è preparata solo con gli strati più interni del chicco di grano, restando così super fine e digeribile.

Ingredienti:
150 gr farina Wellness Cerealia
100 gr cocco rapè
3 uova
150 gr zucchero semolato
200 ml latte
50 ml olio di mais
zeste di limone biologico (due piccoli o uno grande)
8 gr lievito per dolci

Montare a lungo le uova intere con lo zucchero, fino a ottenere una massa spumosa.
Versarvi piano il latte a temperatura ambiente e l’olio, continuando a mescolare con le fruste elettriche a velocità moderata. Aggiungere anche le zeste di limone.
Unire da ultimi la farina e il lievito setacciati e infine il cocco rapè, mescolando con un cucchiaio di legno il tanto che basta da rendere tutti gli ingredienti ben amalgamati (lavorare troppo a lungo l’impasto comprometterebbe la sofficità del dolce).
Versare nello stampo imburrato e infarinato e cuocere in forno statico a 170° per 35-40 minuti (fate la prova stecchino).
Lasciar raffreddare, sformare e a piacere guarnire con zucchero a velo o glassa al limone.

Filed Under: dolci, ricette Tagged With: colazione, torte

Plumcake alla panna e spremuta d’arancia

by 46 Comments

Tornando a casa dopo una giornata davvero da incubo, con il mio classico mal di stomaco nervoso (qualcuno può insegnarmi a smettere di somatizzare, per pietà?) infilo gli auricolari intenzionata a canticchiare nella testa e non ascoltare nulla se non la mia tranquillità interiore, messa a dura prova da tutto il giorno.
La fermata successiva, mi accorgo che la ragazza seduta accanto a me si porta agli occhi un fazzoletto.
Collego subito alla maledetta allergia che mi chiude naso e gola da qualche giorno e penso che siamo davvero tanti a condividere questa sfiga.
Poi mi accorgo che, seppur con grande contegno, il fazzoletto continua ad asciugarle gli occhi, ancora e ancora.
Incerta sul da farsi, cerco di guardarla il meno possibile, per non metterla in imbarazzo. E allo stesso tempo controllo a fatica il mio impulso di appoggiarle delicatamente la mano sulla spalla.
Perchè è quello che mi verrebbe naturale fare. Senza dire niente, senza fissarla.
Anche a me è capitato di piangere sul vagone. Composta, non un singhiozzo,  lo sguardo basso. Decisamente non si addice al mio caratteristico pudore, ma proprio non riuscivo a non far scorrere le lacrime.
Forse certi dolori non si comandano
o, forse, non ho poi tutto l’autocontrollo di cui ogni tanto faccio l’errore di compiacermi.
Resto incerta, combattuta. Cosa è giusto fare?
Non voglio si senta sola, nel condividere forzatamente il suo dispiacere con un centinaio di sconosciuti.
Vedere piangere qualcuno semplicemente mi spezza il cuore.
Io sono quella che mentre fa jogging torna indietro perchè ha visto una lumaca in mezzo alla strada e, pur sapendo che l’interruzione le romperà il fiato, la porta in un prato, al sicuro.
Sono quella che da piccola, nella giornata delle torte a scuola, aveva paura di guardare sul tavolo sapendo che vedere avanzata una fetta della fatica della mamma le avrebbe stretto un nodo in gola (paura stupida poi, era troppo buona e non ne restava mai una briciola).
Sono un cuore di burro dimenticato fuori dal frigorifero, a luglio: praticamente liquefatto.
Figuriamoci come posso sentirmi nel vedere qualcuno in lacrime.
Eppure sono stata ferma, torturandomi le meningi ma innaturalmente impassibile fuori. Ho ceduto alla paura di imbarazzarla, provocarle fastidio o rabbia, farla sentire peggio.
E mentre camminavo verso casa era un continuo rimuginare. Sentivo la mano pesante: era davvero più importante non rischiare una figuraccia che posare quella mano sul suo braccio, offrire un briciolo di conforto non richiesto che, per quanto misero, poteva fare la differenza?

 

Ingredienti:
300 gr farina
250 ml panna fresca
100 ml di spremuta d’arancia
180 gr zucchero semolato
3 uova
8 gr lievito per dolci
buccia d’arancia qb
un pizzico di sale

Montare le uova con lo zucchero per almeno 5 minuti, finchè diventeranno soffici e molto spumose.
Aggiungere il succo d’arancia (spemuto fresco e filtrato con un colino), la scorza e il pizzico di sale.
Setacciare lievito e farina insieme e unirli al composto, alternandoli con la panna.
Mescolare il necessario per ottenere un impasto liscio e versarlo in uno stampo da plumcake leggermente unto con olio (io uso quello di riso che ha il sapore più neutro).
Cuocere in forno statico a 180° per 35 minuti, facendo la prova stecchino.
Lasciar raffreddare completamente prima di estrarlo dallo stampo.
Servire spolverato di zucchero a velo (a piacere si può preparare anche una glassa con zucchero a velo e qualche cucchiaio di succo d’arancia, questa era una versione semplice da colazione).

Filed Under: dolci, ricette Tagged With: colazione, torte

Tartare di spada con riso venere, verdure croccanti e salsa ai peperoni arrosto e yogurt

by 46 Comments

Morbidezza sono le lenzuola di flanella, le orecchie del tuo cane, le nuvole che sembrano panna montata. Il sorriso di un bambino in metropolitana, un uomo che ti cede il passo tenendoti la porta, il piumone nelle prime notti d’inverno. La pelle dei neonati, i ricordi d’infanzia, il tocco delle mani di tua madre sui capelli.
Lo impari nel rapporto con gli altri, che qualche attenzione in più coltiva gli affetti meglio di qualsiasi fertilizzante, li rende sani e rigogliosi e gli consente di rifiorire costantemente. Mai uguali e sempre bellissimi. Sai anche che questa cura spesso non sarà ricambiata, ma ne vale ugualmente la pena: amare ti rende la vita morbida.
Lo impari dagli uomini, che accarezzare gli spigoli non piace quasi a nessuno.
E quando marito scherza con le tue costole non sa che, anche se sei in fissa con la magrezza, spesso hai invidiato qualche curva in più al posto giusto.
Lo hai imparato sul lavoro, che la rigidità non paga e gli atteggiamenti troppo spigolosi non si addicono alle persone intelligenti, solo a quelle frustate. E sole.
Che equilibrio, educazione e un approccio lucido e pacato risolvono già il 50% di qualsiasi problema.
E la durezza della vita non giustifica gli errori, nè le mancanze.
Papà e mamma da piccola ti davano della talebana: bianco o nero e non esistono vie di mezzo. Certo morbida non lo eri affatto, nè nei giudizi nè su quelle gambe da ragnetto. Che chi non ha il coraggio di prendere una posizione non ti è mai piaciuto nemmeno un pó.
E ironia della sorte, oggi ti trovi a volte a litigare con Lui, che fatica a concepire come qualcuno possa ritenere corretta l’idea opposta alla sua.
E tu ogni tanto gli scalpelleresti quella testa intelligente eppure così di pietra, che immediatamente ti ha conquistata, per smussarne un pó gli angoli.

Ma a suon di craniate, siete cresciuti e migliorati insieme. E il suo cuore, quello hai imparato come ammorbidirlo… o forse, è venuto tutto da sè e tu non hai dovuto fare proprio nulla.

 

Ingredienti (per due porzioni)
100 gr pesce spada freschissimo
200 gr riso venere
una piccola zucchina
una piccola carota
metà della scorza di un limone piccolo
un cucchiaino di salsa di soia
olio EVO
pepe multibacca
Per la salsa
4 filetti di peperone grigliato
un cucchiaio di yogurt bianco intero
un cucchiaio di olio EVO 
sale affumicato
pepe multibacca

Cuocere il riso venere mantenendolo al dente. Scolare e raffreddare sotto l’acqua, come per un’insalata di riso.
Grattuggiare molto finemente la zucchina e la carota, aggiungerle al riso insieme a un cucchiaio di olio EVO, le zeste di limone e un paio di pizzichi di sale (deve rimanere una base piuttosto neutra profumata dal limone).
Mentre il riso insaporisce, preparare la salsa: frullare i filetti di peperone grigliato, privati della pelle, con lo yogurt, l’olio, il sale e il pepe.
Tagliare a piccoli cubetti il pesce spada e condirlo con un cucchiaino d’olio, uno di salsa di soia e del pepe.
Comporre il piatto con l’aiuto di un coppapasta, formando una base di riso venere, aggiungendo la tartare in cima e un paio di cucchiai di salsa come decorazione del piatto.


 

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Cannella e Confetti

Margherita Daverio, alias Cannella e Confetti.
Classe '84, vivo a Milano e faccio la PR.
Per me cucina è carattere, brivido e poesia.
Sognatrice ad occhi aperti ed eccessiva negli affetti, vivo di istanti e di istinti.
Mi tengo stretta la famiglia, gli errori e i ricordi. Guardando sempre avanti, che la vita non si ferma. E tanto meno io.

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